Per uno sbocco
rivoluzionario e libertario alla crisi imposta da Stato e Capitale
EXPO: LA LOTTA CONTINUA
“Devastazione e saccheggio”, parole forti, parole da quindici
anni di galera per chi viene beccato con la mazzetta in mano, per chi è stato
preso nel mucchio del riot cittadino, nei pressi di una vetrina infranta o di
un auto in fiamme o, a posteriori, ne
verrà riconosciuta la presenza attraverso analisi fotografiche e video.
Chi ci sta lo sa.
A chi devasta territori e ambiente, a chi saccheggia le risorse
comuni, a chi ci fa morire di amianto, d’inquinamento, di discariche abusive, a
chi ha un altro tipo di “mazzette” in mano, sappiamo bene che lo Stato e i suoi
apparati repressivi (polizieschi, giudiziari e carcerari) non riserva
altrettanto trattamento. E non potrebbe essere altrimenti: Stato e Capitale,
nella loro complice e collusa alleanza, non possono certo “accusarsi e
arrestarsi” a vicenda. E anche questo noi lo sappiamo.
A Milano, il Primo maggio, una grande manifestazione di oltre
trentamila persone, in maggioranza di giovani, donne e uomini, sia del luogo
che provenienti da varie parti del paese e d'Europa, ha animato le vie della
città percorrendo, in vario modo, i pochi chilometri di strade 'concessi' dalle
Autorità locali sotto stretto controllo dei vertici nazionali. L'obiettivo era
quello di disvelare il reale significato di quel baraccone fieristico
rappresentato da Expo 2015; di denunciare che quanti hanno contribuito al
disastro alimentare ed agricolo di paesi e di parti consistenti di interi
continenti non possono ora presentarsi come paladini della lotta della fame nel
mondo, del rispetto delle biodiversità e della vita e del lavoro di che la
terra la lavora; di accusare il sistema di malaffare, di corruzione, di
speculazione selvaggia che ha regnato su Expo e che regnerà sulle aree del sito
alla conclusione dell'evento; di opporsi ad un modello di sviluppo basato sul
lavoro precario, gratuito e sulla pauperizzazione del paese.
Un corteo di meno di quattro chilometri ottenuti a fatica, dopo
il divieto, giunto a pochi giorni dalla manifestazione, di passare per il
centro città, trasformata in una sorta di zona rossa, una sorta di provocazione
in una giornata che è sempre stata simbolo della lotta per la liberazione dalla
schiavitù del lavoro salariato, in una città che ha visto negli anni lo
svolgimento di grandi e partecipate May Day.
Un corteo composito ed eterogeneo, che raccoglieva il lavoro
svolto nel tempo dai comitati No Expo e lo sforzo organizzativo di
rappresentare sul campo le diverse anime e sensibilità che sul terreno della
lotta a quel modello di società e di sviluppo si muovono. Un corteo costruito
assemblearmente dopo diversi mesi di riunioni, di confronti, di decisioni
costruite sul consenso e sull'accordo. In testa più di duecento musicisti,
appartenenti a bande di vari paesi d'Europa, reduci dalla cena serale
d'accoglienza presso la sede della FAI di Milano curata dalla Banda degli
Ottoni, a dare un segnale di festa e di calore, a seguire i comitati No Tav, No
Muos, No Expo, la rete 'Genuino clandestino', quelli di lotta sul territorio e
per la casa, il sindacalismo di base della CUB e dell'USB, lo spezzone rosso
nero con lo striscione 'Expropriamo Expo', dietro cui sfilavano circa duecento
compagni e compagne tra FAI, il Circolo anarchico di Via Torricelli 19, l 'USI striscione e Iniziativa Libertaria di
Pordenone con i loro striscioni, oltre a diverse individualità. A seguire, e a
chiudere il corteo, il SI.COBAS, il 'Sindacato è un'altra cosa', e infine vari
partiti, da Rifondazione al PCL.
Imponente lo schieramento di polizia, con mezzi blindati e
reticolazioni semoventi, a chiusura delle varie possibilità d'accesso al centro
città; anche se rimane 'curioso' il fatto di aver lasciato parcheggiare le auto
lungo il percorso del corteo, così come il fatto che siano rimasti al loro
posto i cestini per i rifiuti ed altre suppellettili cittadine che generalmente
vengono rimosse in previsione di cortei 'caldi e vivaci' come ci si aspettava
che fosse, soprattutto dopo la campagna mediatica preventivamente
criminalizzatrice e le conseguenti perquisizioni e sgomberi delle giornate
immediatamente precedenti.
La formazione del corteo è stata lentissima anche perchè si
partiva dalla grande piazza di Porta Ticinese per imboccare lo stretto omonimo
Corso, ma senza grossi problemi perchè il posizionamento dei vari spezzoni era
stata concordato da tempo. Quello che non poteva essere concordato era il
posizionamento di quanti, provenienti da fuori Milano e da fuori Italia, non
avevano partecipato al percorso organizzativo e che si presumeva si potessero
posizionare alla coda del corteo. Nei fatti quello che è successo è che queste
realtà si sono posizionate all'interno degli spezzoni a loro più affini,
soprattutto nella parte centrale del corteo dove si è evidenziato un
comportamento assolutamente refrattario al rispetto degli accordi presi
precedentemente. Volontà politiche, sicuramente autoritarie e prevaricatrici,
ed in/sofferenze sociali si sono mischiate dando origine ad uno spezzone che ha
cercato un suo protagonismo attivistico prima nella contrapposizione con le
forze di polizia, poi con quelli che sono stati identificati con i simboli del
potere capitalistico. Ma chi cerca di trovare un nesso unico, una regia unica,
in quello che è successo sbaglierebbe.
Lasciando alla destra tradizionale e a quella renziana le
urla di sdegno e gli editti accusatori, la minaccia di rappresaglie ed i
progetti di leggi liberticide, quello che ci interessa mettere a fuoco è come
il Primo maggio a Milano si sia messo in scena non tanto una replica di quanto
già visto a partire da Seattle in poi, quanto una prima concretizzazione di
quello che le politiche di austerità, di impoverimento sociale, di
rafforzamento autoritario, di restringimento degli spazi di espressione e di
organizzazione, stanno producendo: una espressione, fluida, anche
contraddittoria, di un malessere sociale ed esistenziale, che nel conflitto,
nelle sue varie forme possibili, cerca uno sbocco.
Così, alcune centinaia di manifestanti si sono misurati prima
con la polizia che, con un numero spropositato di lacrimogeni urticanti (si
dice più di 400) e con l'uso degli idranti, li ha respinti, per rivolgere poi
la loro attenzione alle vetrine di banche, negozi di vario tipo, auto,
pensiline dei mezzi pubblici, semafori, ecc., mischiando le banche, simboli
classici del sistema di sfruttamento capitalistico con attività generiche (un
barbiere, un ottico, un ortofrutta...). Insomma tanto lavoro per assicurazioni
ed artigiani mentre Maroni e Pisapia hanno già offerto rimborsi e organizzato
manifestazioni: il 2016 con le elezioni della nuova giunta non è poi così
lontano.
Trovandosi al centro del corteo il rischio del coinvolgimento
dell'intera manifestazione è stato ovviamente molto alto - è stato avanzato
anche il sospetto che alcuni all'interno di quello spezzone lavorassero per
trasformare tutto il corteo in un terreno di scontro complessivo - ma se così non è stato è grazie alla
determinazione delle componenti iniziali organizzatrici della manifestazione
che hanno tenuto fede agli impegni presi assemblearmente sia mantenendo le
posizioni, sia concludendo il percorso tra i fumi dei lacrimogeni e delle auto
incendiate. In questo contesto non si può tacere delle tattiche poliziesche
tese da una parte a contenere i danni tra i 'suoi' e dall'altra ad evitare che
ci fossero delle vittime tra i manifestanti, tali da 'sporcare' l'inaugurazione
di Expo. Del 'buon cuore' ipocrita del Ministro degli Interni non sappiamo che
farcene.
Detto questo rimangono sul tappeto alcune considerazioni da
fare.
La crisi sta scavando sempre di più nel corpo sociale del
paese, le politiche riformistiche non hanno più gambe né fiato né sirene da
suonare, la disoccupazione cresce e soprattutto quella giovanile, non c'è uno
straccio di politica industriale all'orizzonte, le rappresentanze politiche più
o meno tradizionali si sono dissolte, le divaricazioni sociali crescono così
come cresce il controllo sociale fino a prefigurare scenari di militarizzazione
sociale complessiva, leggi sempre più autoritarie e restrittive sono
all'orizzonte sia sul campo degli scioperi dove si vuole imporre un criterio
maggioritario alla tedesca, sia nel campo delle manifestazioni di piazza. Non
ci vuole molto a capire che, in mancanza di una capacità politica
rivoluzionaria in grado di costruire uno sbocco praticabile e condiviso alla
situazione che stiamo vivendo e che andrà sempre più aggravandosi, la violenza
acefala diventerà l'unica forma di espressione possibile. Esorcizzare quanto è
successo non ci aiuta, il moralismo perbenista nemmeno, il settarismo
autoreferenziale men che meno. C'è da rimboccarsi le maniche, sempre più e
sempre meglio, sulla strada della lotta quotidiana, dell'autorganizzazione, del
duro lavoro di costruzione di un movimento libertario che sappia essere agente
reale e concreto della trasformazione sociale.
Le compagne e i
compagni della Federazione Anarchica Milanese
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