“Ai sindacati ci pensiamo
noi, una volta al governo”,
non sono proprio le parole testuali, ma il concetto è lo stesso,
quello espresso da Di
Maio, il ragazzo
prodigio pentastellato. Dopo essere andato ad omaggiare i padroni ad
Abano Terme, baciare il sangue di San
Gennaro, ha ripreso
il luogo comune che i sindacati non vanno bene. La caccia ai voti nel
sottopancia italiano, tra i disoccupati e i non tutelati che leggono
la loro precarietà come unico prodotto di una società fondata sui
diritti sociali che però “privilegerebbero” alcuni e
discriminerebbero tanti altri. Una logica che genera guerre fra
poveri, caccia all’immigrato,
cancellazione di qualsiasi lotta sociale e sindacale per sostituirla
con una guerra fra poveri continua. Una guerra fra chi subisce la
ferocia del liberismo, i tagli alla spesa pubblica, l’imbarbarimento
delle coscienze, lasciando impuniti chi ne trae profitto e potere da
una situazione di insicurezza continua.
I sindacati confederali –
CGIL, CISL e UIL – hanno le loro responsabilità nella precarietà
sociale ed economica presente, segni del fallimento della
concertazione dei diktat padronali e del mercato. I funzionari
sindacali e le
organizzazioni non hanno brillato come strumenti di lotta ed
emancipazione dei lavoratori, ma al tempo stesso all’interno dei
sindacati ci sono lavoratori ed idee di riscatto e mediazione sociale
che vengono ogni giorno negate sia dai padroni sia dai figli di papà
sorridenti che brillano nel baciare ampolline di vetro. In tutto ciò
però c’è chi non si arrende alla perdita di diritti, c’è chi
vuole l’allargamento dei diritti per tutti.
C’è chi fa sindacalismo dal
basso, senza poltrone, per il miglioramento della vita di tutti e la
conquista di garanzie sociali e lavorative, per una piattaforma di
lotta che prevede: forti aumenti salariali, riduzione generalizzata
dell’orario di lavoro (30
ore settimanali),
investimenti pubblici per ambiente e territorio, pensione a 60 anni,
con 30 anni di contributi, garantire il diritto alla salute,
all’istruzione, all’abitazione, e molto altro in quella che si
annuncia come la prima scadenza nazionale di lotta sindacale per lo
sciopero generale del 27 ottobre.
In questi giorni si consuma
l’ennesimo atto di arroganza padronale e del governo. Da una parte
all’Ilva
di Taranto, Genova e nelle altre sedi, viene cancellato il futuro di
chi non avrà più un lavoro e si chiamerà “esubero (un po’ come
gli esodati della Fornero),
dall’altra, grazie alla truffa del Jobs Act, verranno cancellati
garanzie e diritti per i lavoratori che dovranno cedere al ricatto
occupazionale fatto dall’azienda. Il governo, dal canto suo, non
dice nulla al modo arrogante di fare di una imprenditoria italiana,
anzi, quasi la premia visto che, per l’ennesima volta, vara una
finanziaria che trova soldi per i padroni e le avventure militari, a
scapito di scuola e sanità pubblica.
Lo sciopero generale del 27
ottobre, indetto da un’ampia area di sigle sindacali, non è lo
sciopero fatto in Catalogna,
non passa per l’identità nazionale, seppur socialmente impegnata,
ma alza la voce di chi lavora in questo paese che sta arricchendo i
pochi che stanno al potere (politico ed economico), mettendo le mani
nelle tasche dei molti che sopravvivono della quotidianità della
precarietà. Il 27
ottobre sciopero
generale di tutte le categorie per la secessione
dagli interessi del profitto,
e l’affermazione dei diritti dei più deboli.
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